Non è possibile fare un paragone tra un ponte come si concepisce nell’occidente civile e le impalcature utilitarie che i soldati giapponesi avevano preso l’abitudine di allestire sul continente asiatico; non è neppure possibile un paragone tra i procedimenti rispettivamente usati per la costruzione. L’impero nipponico possedeva certamente tecnici qualificati, ma li tratteneva nella madre patria, mentre nei paesi occupati la responsabilità dei lavori era lasciata all’esercito, e i pochi specialisti scovati rapidamente in Tailandia non avevano né autorità né competenza sufficiente, tanto che il più delle volte lasciavano fare ai militari. I metodi di questi, rapidi e anche in un certo senso efficaci, bisogna riconoscerlo, erano stati suggeriti dalla necessità, quando, durante l’avanzata nei paesi occupati, incontravano opere d’arte distrutte dal nemico in ritirata. Tali metodi consistevano prima di tutto nel piantare sul fondo del fiume due file di pilastri, sui quali veniva poi steso un complicato intrico di pezzi di legno, fissati senza un piano, senza arte e con completo disprezzo della statica, e accumulati nei punti nei quali un esperimento immediato rivelava qualche debolezza. Al di sopra di questa rozza sovrastruttura, che a volte raggiungeva grandi altezze, erano posate due file parallele di grosse travi, costruite dai tronchi appena squadrati posti a sostegno delle rotaie. Il ponte allora era considerato finito, perché soddisfaceva ai bisogni del momento, ma non aveva parapetto, e nemmeno un passaggio per i pedoni. Costoro, se volavano servirsene, dovevano camminare in equilibrio sull’abisso lungo i travi, cosa che del resto ai Giapponesi riusciva facilissima. Il primo convoglio passava lentamente, sussultando, e la locomotiva talvolta deragliava al punto di congiunzione colla terra ferma, ma allora interveniva una squadra di soldati armati di leve a ricondurla sulla retta via. Il treno continuava la corsa e, se aveva danneggiato eccessivamente il ponte, venivano aggiunti altri pezzi di legno. Il convoglio seguente passava allo stesso modo e l’impalcatura resisteva per qualche giorno, qualche settimana, e perfino qualche mese; poi veniva travolta da un’inondazione o crollava sotto troppi violenti sobbalzi. I Giapponesi allora ricominciavano il lavoro senza spazientirsi, col materiale fornito dall’inestinguibile giungle. Il metodo della civiltà occidentale non è certo altrettanto semplicistico e il capitano Reeves, che rappresentava un elemento essenziale di tale civiltà, si sarebbe vergognato di lasciarsi guidare da un empirismo così primitivo. Ma la tecnica occidentale porta con sé, in fatto di ponti, una quantità di obblighi che aumentano e moltiplicano le operazioni precedenti l’esecuzione vera e propria. Per esempio, esige un progetto particolareggiato e, per tracciarlo, vuole che siano conosciuti in precedenza la sezione e la forma di ogni trave, la profondità a cui saranno fissati i pilastri e molti altri dettagli. Naturalmente sia la sezione sia la forma e la profondità richiedono calcoli complicati, riferentesi a cifre che denunciano la resistenza dei materiali impiegati e la consistenza del terreno. Tali cifre a loro volta dipendono da coefficienti che caratterizzano dei campioni standard, che nei paesi civili sono dati dai formulari. Insomma la realizzazione implica la conoscenza completa a priori del lavoro, e questa creazione spirituale che precede quella materiale è una delle maggiori conquiste del genio d’occidente